Pubblichiamo di seguito il contributo di approfondimento a cura di Antonio Rossetti ex vice presidente del Csco di Orvieto all’articolo Grave buco generazionale, sparito quasi un quarto dei giovani tra 25 e 40 anni. Situazione peggiore nel ternano
Interessante il dibattito attorno ad uno dei temi di maggior rilievo dell’habitat socio-economico dell’intero occidente, ma che a Orvieto presenta tratti ancora più marcati: mi riferisco alla “questione demografica”. Già in tempi non sospetti, il “Bollettino” 2017 del Centro Studi città di Orvieto, nel cui CdA ho avuto l’onore di militare, stigmatizzava tale variabile come, insieme alla contenuta dimensione delle imprese locali, la più rilevante fonte di criticità economica della zona dell’orvietano.
Ma perché una notizia di per sé stessa positiva, l’allungamento della aspettava di vita, può avere impatti economici negativi? In primo luogo, perché il dato dipende anche da una flessione del tasso di natalità oltre che da un incremento della migrazione giovanile in altre aree geografiche. In secondo luogo, analizzando più da vicino gli impatti economici della demografia, prendendo a metrica del benessere il reddito pro capite, è agevole verificare che questo dipende dal prodotto tra tre variabili: il reddito per addetto (un indicatore di produttività, cioè della tendenza alla riduzione dei fattori di produzione necessari a produrre un’unità di un certo bene), il rapporto tra popolazione attiva su popolazione in età da lavoro (che dipende dalla risposta che l’offerta pone in essere rispetto alla congiuntura economica) e dall’incidenza della popolazione in età da lavoro rispetto alla popolazione totale: quest’ultima variabile è funzione della demografia. Ma secondo studi anche di tipo econometrico, anche la produttività dipende direttamente dalla demografia: ad esempio, secondo uno studio di Credit Suisse, quest’anno il tasso di crescita della produttività in USA sarà più basso di circa l’1% a motivo della variabile demografica. Siccome, come ebbe a dire il premio Nobel Krugman, “nel lungo periodo la crescita della produttività è quasi tutto”, si intuisce la rilevanza della demografia per la situazione economica.
Del resto la conclusione è agevolmente intuibile: un’età anagrafica media più alta rende il sistema “naturalmente” meno dinamico, meno propenso al consumo e al finanziamento di iniziative imprenditoriali e con maggiore necessità di spesa pubblica di sostegno.
Una seconda variabile rilevante nella spiegazione della dinamica della produttività, è quella della dimensione delle imprese, già richiamata molto bene nell’articolo di Matteo Tonelli di qualche giorno fa; si badi, per Orvieto non vale il detto marshalliano-becattiniano “piccolo è bello”, riferito ai distretti industriali: cioè ai gruppi di piccole imprese che operano in uno stesso settore e hanno un’adattabilità reciproca tra ambiente sociale e settore produttivo, mentre altre aziende si specializzano nei servizi alle imprese del territori, che sarebbe antieconomico produrre in-house (economie esterne vs economie di scala); questo sistema produttivo crea, appunto, un distretto, come quello della lana rigenerata di Prato o delle piastrelle di Sassuolo, che può efficacemente competere anche con una dimensione aziendale media contenuta. Ma tale realtà industriale non è quella riscontrabile nell’orvietano, dove non si può parlare di distretto ma di un arcipelago di micro-aziende. Pertanto, il fattore demografico, unitamente alla contenuta dimensione aziendale, rende le iniziative imprenditoriali ceteris paribus più aleatorie e aumenta il costo del credito con effetti depressivi sul processo di accumulazione del capitale fisso, cioè degli investimenti industriali.
Questa caratterizzazione del tessuto socio-economico dell’orvietano, fatalmente s’intersecherà nei prossimi anni con il nuovo modo di produzione che sta velocemente imponendosi in tutto il mondo: la realtà digitale e il machine learning, intendendo con tale termine – semplificando al massimo e accettando una certa dose d’approssimazione – un sistema basato sullo sviluppo di un approccio di intelligenza artificiale, cioè un processo decisorio senza l’agente umano o, più frequentemente, con un suo ruolo più modesto che in passato. Questa rivoluzione, veramente paragonabile a quella che si sperimentò con la messa in produzione delle macchine a vapore, pone contemporaneamente una sfida e un’opportunità alle aziende di non elevate dimensioni: la prima, riviene sia dalla capacità di intercettare i mezzi finanziari per soddisfare i necessari investimenti tecnologici, sia dal successo di collegare in rete le micro-imprese; la seconda, dalla possibilità che il “nuovo modo di produrre” – come ha osservato recentemente Da Empoli (“Intelligenza artificiale: ultima chiamata”, 2019, Università Bocconi Editore) – avvantaggi maggiormente le aziende organizzate per raccordi orizzontali (cioè, appunto, organizzate “in rete”) e non le grandi manifatture integrate verticalmente.
Quale potrà mai essere, dunque, l’agenda per il futuro (prossimo, molto prossimo)? Per dirla con Keynes, le prospettive per i nostri nipoti risiederanno nell’elaborazione di un habitat atto all’incubazione dell’organizzazione produttiva nel senso delle linee descritte e della capacità di essere attrattivi come territorio nei confronti di nuovi potenziali residenti (con una politica dei trasporti e della fiscalità immobiliare adeguate allo scopo): se saremo corrispondenti al compito, il nuovo vento tecnologico dell’intelligenza artificiale potrebbe gonfiare le vele del sistema orvietano. [suggeriti]