di #LilliKnowsItBetter (alias Liliana Onori @cipensailcielo)
L’altra notte non riuscivo a dormire così, facendo zapping in televisione, mi sono messa a cercare un film da guardare e mi sono imbattuta in The Hole, di Joe Dante. Ai più Joe Dante risulterà probabilmente un nome che dice poco e niente, ma per quelli della mia età, cresciuti negli anni ’80, è sinonimo di Gremlins, Explorers e Salto nel buio, tre film fanta-orrorifici che hanno segnato quell’epoca.
The Hole, all’apparenza, è la classica pellicola horror in cui una casa stregata della placida periferia americana risucchia i suoi abitanti in un vortice di terrore. Susan, in fuga da un marito violento, con i suoi due figli adolescenti Dane e Lucas, si trasferisce in un’altra città per ricominciare una nuova vita in una nuova casa, lasciandosi il passato alle spalle. La casa però, ovviamente, non è pacifica come sembra. Nello scantinato, i due ragazzini trovano per caso una botola chiusa con diversi lucchetti e con l’aiuto della coetanea Julie riescono ad aprirla, scoprendo sotto di essa un profondo buco nero di cui non si riesce a vedere nemmeno il fondo. Una volta aperta questa botola, inizieranno a verificarsi eventi inspiegabili e terrificanti come bambine zombie, fantasmi di corpi martoriati e brutti pagliacci assassini. A mano a mano, i tre capiscono che la botola non è altro se non un portale dell’inconscio di chiunque gli si avvicini. La botola racchiude infatti tutte le loro paure, quelle inconfessate soprattutto, e li costringe loro malgrado ad affrontarle in modo da poterle sconfiggere. Julie ha paura degli zombie, Lucas dei pagliacci e Dane di suo padre, l’uomo violento che lo ha terrorizzato per anni e che nella sua mente si figura sempre come un mostro nero enorme che inghiotte tutto quello che ha intorno e fa apparire persone e oggetti piccoli e indifesi. Ma più Dane affronta il suo mostro e la sua paura, più il mostro lentamente rimpicciolisce, e anche la paura si affievolisce, e più succede, più l’immagine mostruosa del padre assume sembianze umane, fino a farglielo vedere per quello che è: solo un uomo e non un mostruoso essere invincibile. Una volta affrontata la paura e sconfitto i propri demoni, la botola torna ad essere una normalissima botola che copre le tubature.
Joe Dante è noto per i suoi richiami a pellicole più famose, ma in questo film, benché la presenza di clichè e stereotipi sia forte, ho trovato il nodo centrale della storia molto coinvolgente. E il nodo è, chiaramente, la paura.
Nel vocabolario, la paura è definita come uno stato emotivo, più o meno intenso, consistente in una sensazione di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo, che sia esso immaginario o reale. L’emozione può essere attuale o prevista nel futuro, evocata da un ricordo o prodotta dalla fantasia. Può manifestarsi come semplice agitazione, come preoccupazione, fino a diventare terrore o panico vero e proprio. È un’esperienza soggettiva e pervasiva di spiacevolezza e di intenso desiderio di evitamento nei confronti di un oggetto o di una situazione giudicata APPUNTO pericolosa e tensione, tremore, immobilità, paralisi, nausea, sudore, urla sono solo alcune delle risposte fisiologiche a questo sentimento.
I dottori dicono che la paura svolge però una sorta di funzione positiva, quasi essenziale, in quanto segnala uno stato di emergenza e di allarme preparando così il corpo e la mente all’impatto con il pericolo, spingendo in tal modo il soggetto all’attacco o alla fuga. Biologicamente, quando si prova paura, si scatena nel corpo la scarica potente di un ormone chiamato adrenalina che crea immediatamente uno stato di allerta, facendo contrarre i vasi sanguigni e aumentando così il ritmo cardiaco e respiratorio, le pupille si dilatano, il cervello diventa capace di prendere decisioni rapide, il fegato produce più glucosio e la digestione si ferma in quanto consumerebbe troppa energia che invece serve ai muscoli per affrontare il pericolo stesso. È innegabile, quindi, che biologicamente il corpo sia pensato per la sopravvivenza e la conservazione. Eppure, non è tutto così semplice.
Nel corso della storia, l’uomo ha cercato di oggettivare la paura dandole un volto, che fosse quello delle streghe, degli untori, dei demoni e via di seguito, perché rendendola umana era sicuramente più facile da affrontare e ha creato dentro e fuori di sé difese granitiche che lo potessero proteggere: Dio e religioni, santuari, amuleti.
Edvard Munch ha immortalato in un quadro, intitolato L’urlo, l’immagine di un essere umano totalmente sfigurata dalla paura, con i lineamenti dalla carnagione giallo-verdognola scarnificati tanto da rendere impossibile decifrare se si tratti di un uomo o di una donna. Il protagonista della tela non è il soggetto rappresentato ma, appunto, il suo urlo angosciante che fa cambiare anche la percezione dell’universo intorno che diventa una massa quasi liquida e informe di colore, come a voler significare che la paura ha il potere di trasformare tutto, dentro e fuori di noi.
Leggendo qua e là, ho scoperto che filosofi, medici e scrittori hanno tutti idee diverse circa la paura e la questione se si possa vincerla o meno. Heidegger, da bravo esistenzialista, parla per esempio dell’angoscia intendendola come la paura dell’indeterminato, dell’ignoto che ci aspetta, del nostro Essere-per-la-morte, di questa sorte orrifica a cui nessuno si può sottrarre; Osho dice che la paura è l’antitesi della libertà; H.P. Lovecraft che la paura è il sentimento più antico dell’animo umano e che la paura più grande è quella dell’ignoto; Italo Calvino che la meta ultima dell’uomo è quella di non avere più paura di niente; Dostoevskij che l’uomo ha nelle sue mani tutto il mondo ma che se lo fa portare via proprio sotto il naso dalla paura; Marylin Monroe che la paura genera solo rimpianti; Oriana Fallaci che ci sono casi in cui non è lecito aver paura; Henry Ford che una delle più grandi conquiste che un uomo possa fare è scoprire che può fare ciò che aveva paura di non poter fare; Lanterna Verde, il supereroe della DC, che la paura è nemica della volontà, che rende deboli e che bisogna ignorarla se non si vuole perdere la capacità di difendersi; Napoleone che chi ha paura è sicuramente destinato alla sconfitta e Kierkegaard che la paura non è mai indefinita ma sempre ben determinata e che è strettamente collegata col concetto di esistenza in quanto esistere vuol dire libertà, vuol dire possibilità, possibilità che qualunque cosa possa accaderci e questo dà un forte senso di precarietà. Dà paura.
I comportamentisti sono convinti che per vincere la paura bisogni eliminare il sintomo della manifestazione attraverso tecniche di familiarizzazione, di assuefazione, quasi, mentre i cognitivisti che per eliminare la paura si debba eliminarne la causa scatenante.
Quando ero piccola, sentivo mio zio ripetere spesso questa frase: la paura non si cura e per tanto tempo sono stata convinta anch’io di questo principio, ma ormai non ne sono più così tanto sicura e dopo tutto quello che ho letto sulla paura in questi giorni, devo ammettere di avere le idee ancora più confuse di prima.
Io credo di sapere della paura quello che sanno tutti e non c’entra niente con il sistema nervoso né con la filosofia. Quando abbiamo paura, riusciamo a pensare e a provare solo quella. È un male sovrastante, infame, che sbigottisce, ci mette di fronte ad aspetti di noi stessi di cui non eravamo a conoscenza, focalizza tutta la nostra attenzione, ci toglie il fiato, ci fa provare un buco allo stomaco, quasi ci fa scoppiare il cuore. Ci riempie come se fosse un liquido che trabocca fino a soffocarci.
Qualche giorno fa, mentre ero in vacanza a Malta, nella cattedrale di San Giovanni che si trova a La Valletta, ho visto il quadro di Caravaggio la Decollazione di San Giovanni Battista, l’unico su cui pare lui abbia apposto la firma. È un quadro molto intenso benché tutta la scena sia immersa nella penombra. Sono presenti due carcerieri, uno dei quali sta per tagliare la gola al Battista, una ragazza con una bacinella per raccogliere la testa richiesta da Salomè come dono di Erode, una donna angosciata e inerte e due prigionieri sul fondo che assistono, quasi invisibili. C’è solo una cosa che spicca ed è la veste che copre i fianchi di San Giovanni. È rossa e cattura in qualche modo tutta l’attenzione e mentre la osservavo ho pensato che la paura è esattamente come la veste di San Giovanni nel quadro di Caravaggio: vedi solo quella… ti cattura, porta tutto su di sé, è quasi magnetica in un modo che non sai descrivere ma sai solo che è vertiginoso. Dando uno sguardo alle altre sue opere, ho notato che in ognuna di esse c’è un colore di un particolare oggetto che catalizza l’attenzione quindi, in un certo senso, quando abbiamo paura, siamo come dentro un quadro di Caravaggio.
Le paure in fondo sono tutte bene o male comuni, un po’ come i desideri. Si può avere paura dei cani, dei serpenti, del vuoto, del buio, degli spazi stretti o di quelli troppo ampi, paura dei clown, dell’acqua alta, di volare in aereo, delle montagne russe, di parlare in pubblico, dei ragni, del sangue, dei tuoni e dei temporali, dei germi. E poi ci sono paure più profonde, paure più difficili da confessare e quindi da affrontare, come la paura di essere abbandonati, di non essere amati, o piuttosto di amare, di fallire, di non riuscire a realizzare i propri sogni, di essere feriti, di perdere quelli a cui si vuole bene, di non essere capiti o accettati, di essere dimenticati, di morire, di restare soli. Perfino di essere felici, a volte.
Io non lo so se la paura si può curare davvero o no. Forse per alcune paure c’è rimedio e magari basta davvero solo affrontarle. Nel film Point Break, per esempio, i protagonisti, una banda di rapinatori di banche appassionati di sport estremi, ricercavano senza sosta situazioni pericolose per provare ogni volta una scarica di adrenalina sempre più forte, per spingersi oltre ogni limite fino a non averne più. E magari il segreto sta tutto qui: capire cosa ci fa davvero paura, interiorizzarlo, accettarne il rischio, affrontarlo e poi sconfiggerlo. O forse ha ragione mio zio e quindi quando hai una paura sei spacciato e basta. Te la tieni, ci convivi e preghi di non doverla affrontare mai.
La canzone a cui mi hanno fatto pensare tutti questi discorsi è Fear of the dark degli Iron Maiden perché tutti, in fondo, come canta Bruce Dickinson, abbiamo camminato almeno una volta per una strada buia con la sensazione che qualcosa ci seguisse o abbiamo guardato in un angolo con la paura che qualcuno si nascondesse nell’oscurità, osservandoci.
Le paure forse restano sempre e solo paure e non se ne vanno mai davvero del tutto o forse guariscono e a un certo punto te le scordi pure e magari è vero che più le affronti più diventano piccole. Ci sono volte che puoi ignorarle, altre che puoi fare di tutto per evitarle ma forse, prima o poi, arriva comunque il momento in cui le devi affrontare, in cui devi guardarle in faccia e dare inizio allo scontro. E non serve pregare o chiudere gli occhi stretti stretti sperando che spariscano. Forse ad un certo punto è inevitabile avere paura. Alcune paure le hai solo da bambino, altre ti vengono crescendo, altre ancora quando sei vecchio, cambiano in base agli eventi della vita, e non si sa mai quale paura ti toccherà affrontare giorno per giorno per tutti i prossimi giorni a venire. Forse invece, come dicono alcuni, è tutto solo nella nostra testa e in realtà non c’è mai nulla di cui avere davvero paura, ma una cosa è certa, ed è un consiglio che mi diede mia nonna tantissimi anni fa: quando sei solo di notte e senti un rumore, non ti girare mai perché, che ci sia o meno, qualcosa di terribile lo vedrai di sicuro.
#LillyKnowsItBetter è la rubrica ideata e curata da Liliana Onori, l’autrice di Come il sole di Mezzanotte, Ci pensa il cielo e Ritornare a casa (ed. LibroSì). In collaborazione con LibroSì Lab, Liliana ci racconta dal suo particolarissimo punto di vista di bibliotecaria e soprattutto di abile narratrice di storie, cosa ne pensa di libri, fiction, personaggi e molto altro. Seguila anche sul suo canale Instagram: @cipensailcielo