di #LilliKnowsItBetter (alias Liliana Onori @cipensailcielo)
Come si fa ad uccidere a Natale? Il brigadiere Maione, fedele spalla del commissario Ricciardi, se lo chiede mentre sta per analizzare l’ennesima scena del crimine. Una scena particolarmente efferata in cui il funzionario della Milizia Emanuele Garofalo viene ritrovato accoltellato decine di volte nel suo letto mentre la moglie Costanza giace riversa nel suo sangue all’ingresso, sgozzata con un taglio netto che le ha squarciato il collo.
Dentro quella casa, il Natale non arriverà più. Tutto è finito e se ne è andato via con le loro vite. Ma non con le loro anime. Quelle sono rimaste vicino ai cadaveri e Ricciardi riesce a vederle bene e anche a sentirne chiaramente l’ultimo messaggio. Quello di Garofalo sembra abbastanza rivelatore, ma quello della moglie è più enigmatico e porta i suoi ragionamenti a sbattere in un inutile vicolo cieco. Unico indizio apparentemente rilevante è la statuina rotta di San Giuseppe. Dai pezzi, sembra essere stata gettata a terra con violenza. Ma perché proprio quella statuina, tra tutte? La statuina simbolo del padre di famiglia, protettrice dei lavoratori. E allora sono quelle le due piste da seguire. Soprattutto quella dei lavoratori, giù al porto, giurisdizione dello stesso Garofalo.
Una volta scoperto che questo esponente del Fascismo era tutto meno che irreprensibile, diventerà ancora più difficile riuscire a venire a capo della matassa di bugie e segreti in cui tutti gli indiziati rimestano, creando nodi impossibili da sciogliere. Ma quello che più complicherà le indagini sarà la lucidità di Maione, messa a dura prova dalla scoperta della vera identità dell’omicida di suo figlio Luca, morto pochi anni prima in servizio. Ancora più dell’omicidio Garofalo, nonostante tutto quello che comporta, è questa scoperta che tiene il lettore attaccato con entrambe le mani ai bordi del libro di De Giovanni, senza riuscire a staccarsene, per scoprire quello che faranno il brigadiere e sua moglie Lucia, se imboccheranno la via della vendetta o quella del perdono.
Il perdono…
È proprio questo il tema del quinto capitolo della saga del commissario Ricciardi secondo me: la capacità di perdonare e la difficoltà di accettarsi vendicatori o, al contrario, misericordiosi.
Perdonare, forse, è più difficile che uccidere perché il perdono è una cosa complicata. Certe volte, il danno subito è così grande che non si può perdonare, non ci si riesce. É uno sforzo sovrumano, quasi innaturale, e quindi non ce la si fa a compierlo. Alcuni dicono che il perdono è per i forti, infatti, e che solo i deboli restano col loro risentimento, col loro odio. Un odio che fa male solo a chi lo prova, a conti fatti. Ma questo non è sempre vero. L’odio spesso arriva anche a chi ce lo causa. Quando la ferita è grossa e ci fa soffrire tanto da generarci odio, quell’odio arriva fino a chi ce l’ha inflitta quella ferita. È un sentimento che non si può non percepire, anche a distanza. Ma è insieme un fardello gravoso da portarsi sempre dietro, questo lo devo riconoscere. Pesa come una montagna che sta tutta ficcata dentro il cuore. È come se fosse gramigna che avvelena tutto quello che c’è intorno. Però i sentimenti, di qualsiasi natura siano, non hanno un interruttore né una data di scadenza. Hanno il loro tempo, lo sanno loro quando devono arrivare e quando invece se ne devono andare. Si può solo provarli, tenendoli con sè finché decidono che è il momento di svanire. Non lasciano altra scelta.
Alcune volte, il perdono ci appare quasi sbagliato quando lo reputiamo immeritato dal destinatario e quindi è come se compissimo un torto pari a quello subito. Vorremmo che l’altro soffrisse tanto quanto noi, attraverso il nostro odio. È l’arma con cui ci vendichiamo e la medicina con cui crediamo di poter curare le nostre ferite.
Altre volte, invece, il perdono arriva naturalmente. Arriva e libera da quella montagna di odio e rancore, la frantuma in talmente tanti di quei pezzi da diventare polvere e la polvere, si sa, il vento se la porta via facilmente. Il perdono, in un certo senso, crea una magia simile a quella che si scatena tra il lupo e la luna piena, una trasformazione mitologica che tramuta ciò che si è in qualcosa di più grande, di più forte e di invincibile.
Frank Castle, il Punisher dell’Universo Marvel, dice che non è mai questione di vendetta, ma solo di punizione. Credo che la differenza, però, non sia sempre così netta e credo anche che, fra tutti, il perdono più difficile resti quello verso se stessi.
…e la speranza
La frase del romanzo che però mi ha colpito più di tutte è questa: «La speranza sarà pure l’ultima a morire, però muore lo stesso».
Nell’antica Grecia, la speranza era uno dei doni custoditi nel vaso di Pandora, un’urna che conteneva tutti i mali del mondo e che, quindi, non doveva essere aperta per nessuna ragione ma che invece, per semplice e umana curiosità, è stata aperta dalla stessa Pandora che è riuscita a chiuderla solo un attimo prima che uscisse anche l’ultimo di questi doni, la speranza, appunto, intrappolandola per sempre lì dentro e facendo di essa la nostra Ultima Dea.
I filosofi si sono spesso interrogati sulla speranza cercando di darle un volto, una definizione e anche una missione. Alcuni l’hanno definita Timor del futuro, altri bisogno, altri ancora illusione, altri errore, inganno e, in ultimo, fede. Fede in qualsiasi cosa si voglia credere o si abbia il bisogno di credere. Ognuno, insomma, ha la sua di speranza. La sua fede. Il proprio personale vaso di Pandora, si può dire.
Il mio amico Francesco dice che avere fede in qualcosa equivale a credere costantemente agli unicorni, però per me non è del tutto così. Magari può non avere sempre senso, ma di sicuro ha sempre uno scopo perché la speranza non è solo illusione, è un sentimento naturale, un’inclinazione essenziale che cammina al fianco dei nostri sogni, sempre. Ci dà il coraggio di non arrenderci, ci sostiene nella debolezza. Forse è necessaria più di quello che si può pensare. È parte della natura umana come qualsiasi altro bisogno primario. È un po’ la nostra stella polare, la guida che ci riporta a riva anche nel buio, quando non sappiamo più dove andare, quando la rotta è persa e non si vede l’orizzonte. È un sentimento tenace, resiste ai colpi, al tempo che passa, non si lascia abbattere dalla paura, nemmeno quando in gioco c’è tutto noi stessi.
Mi colpisce il concetto di morte della speranza, devo ammetterlo, e devo ammettere che alcune mie speranze, ad un certo punto, sono morte, purtroppo. Ci sono cose in cui non credo più e altre su cui invece ho cambiato opinione, ma per tante altre, la speranza è ancora viva e, esattamente come i sentimenti di cui parlavo prima, anche lei ha la sua vita da fare, il suo tempo da esaurire e il suo percorso da seguire. Quando sarà il momento, se ne andrà e io semplicemente lo sentirò. O invece resterà e io non sarò mai del tutto persa.
Seneca dice che anche se il timore avrà sempre più argomenti, nella vita bisogna scegliere comunque la speranza, e forse ha ragione.
La canzone
La canzone che mi ha ispirato questo romanzo è Boulevard of broken dreams dei Green Day perché tutti, almeno una volta, ci siamo trovati a camminare da soli, persi sul viale dei nostri sogni infranti, dei nostri desideri negati, con solo la nostra stessa ombra a farci compagnia. Ma, nonostante le disillusioni, nessuno di noi può negare di aver camminato su quella strada con la speranza che qualcuno, alla fine, ci trovasse.
LillyKnowsItBetter è la rubrica ideata e curata da Liliana Onori, l’autrice di Come il sole di Mezzanotte, Ci pensa il cielo e Ritornare a casa (ed. LibroSì). In collaborazione con LibroSì Lab, Liliana ci racconterà dal suo particolarissimo punto di vista di bibliotecaria e soprattutto di abile narratrice di storie, cosa ne pensa di libri, fiction, personaggi e molto altro. Seguila anche sul suo canale Instagram: @cipensailcielo