di Danilo Gattai
“È già arrivata la Duse?” Con l’occhio sbarrato dato in prestito al Professore de La Lezione di Ionesco Mario Scaccia domandava questo entrando nel foyer dei teatri dove recitavamo. Chi gli si trovava davanti sorrideva complice. Poi il maestro si affacciava in platea e scrutava il buio fin quando non la scorgeva. La figura stava seduta da sola. Allora scivolando tra le file di poltrone le arrivava vicino e le si sedeva accanto sospirando: “Oh, sei sempre qui Eleonora mia!” La Duse ero io. Scaccia si era accorto molto presto che l’attore venticinquenne che aveva scritturato arrivava in teatro diverse ore prima della recita, proprio come la Divina. Mi mettevo in quella penombra, dove sopra scintillavano gli stucchi e le dorature e fissavo e respiravo il palcoscenico, lo spazio dell’arte.
Alle 21.00 anche il mio personaggio sarebbe salito là. Ma dalla platea intuivo il senso bellissimo del vuoto: noi siamo sedotti da una dimensione di mancanza. Il luogo che guardavo è la culla della forma di un ponte invisibile che ogni sera in tutti i teatri si leva verso gli spettatori. In un mondo di nuovi muri questo ponte è una certezza che fa camminare uomini e donne in un al di là, quello dell’arte. Oltre il diaframma del sipario che si apre la parola e l’immagine donano quello che sembra separato. Solo allora ci rendiamo conto di avere passioni mai immaginate, pensieri che ci fanno paura, piaceri il cui segreto ci è negato. Comprendiamo un pezzo in più di noi. Precipitiamo nel perdimento dell’arte e ci troviamo. Lo spazio del teatro, l’attore, l’attrice, il danzatore, la danzatrice, il cantante, la cantante, lo scenografo, la scenografa, il costumista, la costumista, il regista e la regista hanno dato forma fuori da noi a ciò che sta dentro di noi. Ci hanno permesso di realizzare la nostra personalità. Nuove Eleonora Duse devono entrare in quella sala, perché alle 21.00 ci invitino all’appuntamento con noi stessi e con noi stesse. L’animo non è negoziabile.