di Gabriele Marcheggiani
Dimenticate la storia di due ragazzi poco più che adolescenti che si piacciono, si attirano l’un l’altra, magari a far da filo conduttore ad una storia di buoni sentimenti contrastati dalla famiglia di lei che alla fine, superate pure le montagne, si corona con il più classico dei lieto fine. No, “Solo cose belle“, il film opera prima del regista Christian Gianfreda, è molto altro per fortuna.
L’esperienza dirompente delle case famiglia, la grande visione profetica di don Oreste Benzi e della sua Comunità Papa Giovanni XXIII, è un macigno lanciato nella palude stagnante dell’indifferenza, un messaggio “in direzione ostinata e contraria” rispetto a come sembrano andare le cose oggigiorno. Perchè presentarsi ai botteghini dei cinema e riscuotere un buon successo, anche di critica, parlando di cose come diversità, accoglienza, disabilità, amore disinteressato, abbattendo tonnellate di luoghi comuni, non era cosa scontata, tanto meno facile da far digerire al pubblico.
Nel segno della Conversione, sembra quasi che l’intento del film, sia quello di provare a scardinare un certo modo di sentire comune rispetto a certe tematiche, quel sentire che si avvicina molto all’indifferenza e al pregiudizio. Forse l’intento del regista non era proprio questo ma il messaggio che ne viene dalla proiezione del suo film, oltrepassa probabilmente anche le sue stesse intenzioni: la pellicola è come un pertugio, una porta socchiusa oltre la quale c’è un mondo altro, nel quale non ci si accontenta dei buoni sentimenti e del cosiddetto buonismo tout court ma si vive quotidianamente sulla propria pelle quell’esperienza evangelica salvifica e senza compromessi.
Guardare oltre il pertugio significa scoprire che un altro mondo non solo è possibile ma già esiste, si fa concretezza nelle esperienze vive di tante persone che allargano la propria famiglia naturale, accogliendo rifugiati, persone disabili, ex galeotti, ex prostitute, insomma tutta quell’umanità considerata da sempre ai margini. Nulla sembra più naturale di questo mondo che di certo non è avaro di problemi e difficoltà ma che sembra la rappresentazione viva del Discorso della Montagna: beati i misericordiosi, beati i poveri, beati gli operatori di pace, beati i miti, beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi…
Chi decide di accogliere non sceglie chi accogliere e le esperienze delle case famiglia sono piene di contrattempi e di piccoli e grandi problemi. Se il film è quella porta socchiusa, il nostro sguardo deve posarsi oltre, alzandosi dall’ombelico dei nostri fardelli spesso inutili per spaziare su quel nuovo orizzonte di vita cristiana coerentemente vissuta. La domanda che occorre porci, aprendoci a quella conversione a cui siamo chiamati, è la stessa che si pone la madre della protagonista, immersa nel suo mondo perbenista carico di pregiudizi, mentre guarda anche lei da quel pertugio: e se ci stessimo sbagliando? La conversione, intesa come desiderio di cambiamento, dovrebbe risiedere tutta qui, in questo cambio di paradigma esistenziale che non ci metta più al centro di noi stessi ma ci lasci trasportare docilmente, come una foglia dalla corrente del fiume, verso quel mare infinito che è l’amore quando si fa legame disinteressato con il prossimo, chiunque esso sia.