Penso, anzi so, di avere un debito con Umbria Jazz Winter. E come me parecchi orvietani, chissà, potrebbero riconoscerlo. Da 25 anni, le strade, le piazze, le chiese, gli edifici monumentali e alcuni locali privati di Orvieto, per qualche giorno, e soprattutto per qualche notte, si riempiono di musica jazz. La storia locale, che si esprime nelle costruzioni fortemente radicate per forme e funzioni nella società medievale si lascia penetrare da una musica sempre contemporanea, cosmopolita, di ricerca.
Orvieto e il jazz, il jazz ad Orvieto, Orvieto attraverso il jazz creano una contaminazione densa d’atmosfere, un’ibridazione rigenerante. È da brividi pensare che il duomo che accoglie il Corporale attestante il miracolo eucaristico accoglie anche la Messa della Pace che canta gospel trascinanti di sofferenza nera o, se volete esempi più laici, che il Palazzo di una istituzione medievale accolga il Bebop, o che l’ottocentesco teatro comunale faccia lo stesso con sperimentazioni sempre nuove. Mica era detto che sarebbe andata a finire così. Qualcuno forse ricorderà le voci che si sparsero in città alla vigilia della prima edizione: “riecco i capelloni che sporcano in duomo”. E, non ho modo di verificare, ma mi è stato raccontato che in curia, per autorizzare i gospel, si sarebbero voluti i testi tradotti in italiano.
Ma oggi Umbria Jazz Winter è ancora ad Orvieto con la sua allegra ma rigorosa provocazione a farci riflettere sulle cose che diamo per scontate, sulle cosiddette “vocazioni territoriali”; a mostrarci quante lingue parla il mondo e come potremmo capirne di più aprendoci alle diversità; a dimostrarci che la nostra identità culturale è tanto nel passato quanto nel contemporaneo, aborre il fanatismo delle purezze ed invece si nutre di contaminazioni.
Io sono debitore di questo a UJW. E tutto questo mi sembra che sia alla base di ogni altra considerazione sul valore economico e di promozione territoriale di un festival che ha contribuito a riposizionare l’immagine di Orvieto.
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