di Mario Tiberi
Il cambiamento epocale avviatosi negli ultimi decenni del secolo scorso e costellato da molteplici crisi di modelli, di ideali e di appartenenze socio-politiche, sta producendo effetti che stanno andando oltre le previsioni di molti attenti ed acuti osservatori. La fine dei blocchi contrapposti ha comportato un conseguente indebolimento delle ideologie che, quasi del tutto incontrastate, avevano retto la politica italiana nei cinquant’anni successivi alla seconda guerra mondiale. Si sono così, da un lato, liberate energie assopite nella società e, dall’altro, covati nuovi corporativismi e campanilismi. La globalizzazione e l’intensa modernizzazione hanno operato il resto.
Di fronte a tutto ciò, lo smarrimento, l’incertezza del presente e del futuro, il deprezzamento e lo svilimento del senso etico e di quello civico, hanno preso progressivamente corpo e contagiato di resistenti virus le fondamenta dello Stato post-illuministico.
In questo crogiuolo, la crisi delle ideologie e delle identità culturali ha travolto anche un elemento specifico della politica e, cioè, quello di tracciare e di indirizzare le mutazioni genetiche dell’economia e della società. La modernità ha cambiato il mercato del lavoro, l’organizzazione della produzione, le dinamiche dello scambio e le regole dei flussi finanziari, mentre la politica stessa è rimasta al palo: in sostanza il capitalismo di tipo occidentale ha subito un’evoluzione complessa, ricca sì di opportunità, ma anche di enormi problemi e le conseguenze negative le stiamo misurando nell’attuale drammatica crisi.
Chi paga di più il prezzo di queste trasformazioni è la cosiddetta “Sinistra Storica”. Non solo la Sinistra più legata alla storia contadina ed operaia, ma anche la stessa socialdemocrazia. La fine del comunismo non ha lasciato diffusi rimpianti, ma il vuoto non è stato colmato appieno. Il socialismo ha tentato la via democratica con incisività, ma i troppi errori commessi gli hanno tarpato le ali. Per obiettività, il tentativo più coraggioso è stato esperito dalla socialdemocrazia e, in Germania e in Inghilterra, ne abbiamo avute le prove con i loro più autorevoli esponenti divenuti apprezzati Capi di Governo. L’esperienza italiana è stata bloccata dalle troppe divisioni interne e dalla mancata o troppo lenta evoluzione della sua componente principale, quella che fu impersonata dal partito comunista nostrano.
Resta il fatto che la socialdemocrazia ha avuto un ruolo che poteva essere da protagonista e, nonostante il conclamato fallimento del liberismo, comunque annaspa e non sa trovare una linea politica vincente in quanto convincente. Non appare in grado di saper interpretare quella prospettiva di buongoverno, di moralità, di sicurezza sociale, di sviluppo economico che dovrebbe esserle propria e le sue intrinseche difficoltà vanno ben oltre l’orizzonte socialdemocratico, andando ad incidere profondamente su tutto lo schieramento a parole progressista, ma conservatore nei fatti e dunque ad inevitabilmente uscirne indebolito.
Lo stesso cattolicesimo democratico, che pur non ha al suo passivo il fallimento storico del socialismo reale, sembra annebbiato non tanto e non solo per debilitazione dei suoi valori portanti, ma per caduta di incisività nel proporli in chiave moderna.
A questo punto è necessario andare oltre: la ricerca, ancora agli inizi anche se chiaramente indirizzata al nuovo, di energie politiche emergenti capaci di dar vita ad omogenei soggetti di rottura con il passato vuol significare, per tutte le istanze del riformismo democratico-rivoluzionario, costruire risposte nuove alle domande che la modernità ci pone e ci impone.
Tra le principali questioni che includono aspetti programmatici e politiche di governo, ne evidenzio due. La prima riguarda quella che, personalmente, considero la primaria immagine caratterizzante l’odierna fase storica: l’impoverimento delle classi medie. La ricchezza e la povertà sono gli estremi di una condizione sociale che coinvolge la maggioranza della popolazione, all’interno della quale, la massificazione ha trasformato ceti sociali che erano ben distinti tra loro nel reddito, nei costumi, nelle prerogative, in un’unica grande palude che possiamo a ragione definire come i nuovi “ceti popolari”. Non che tutti siano uguali; le differenze di reddito e di cultura permangono, ma la condizione generale è la stessa: la crescente fatica quotidiana, più morale e non solo materiale. La ex classe operaia si trova dentro questo nuovo mondo assieme alla piccola e media borghesia e le conseguenze, anche elettorali, sono evidenti poiché una visione al ribasso e solamente pauperista dei fenomeni sociali non può cogliere il soffiare impetuoso dei venti del rinnovamento e della trasformazione.
La seconda riguarda la natura e la qualità della democrazia. La democrazia politica, quella insegnata a scuola e caratterizzata dal diritto al voto e dai diritti civili, non basta più per governare le esplodenti questioni economiche e sociali. Non so se la definizione di “economia sociale di mercato”, così abusata e cara sia a destra che a manca, risponda davvero all’esigenza di una moderna idea di capitalismo illuminato. Preferisco parlare di democrazia economica, intendendo con ciò originali forme di partecipazione e di governo delle sempre più accelerate dinamiche sociali. Si pensi, ad esempio, al ruolo crescente di novelle configurazioni di rappresentanza, come i consumatori o gli ambientalisti o le associazioni di cittadinanza attiva: insomma quel complesso universo degli emergenti che si sta a pieno titolo affiancando alle tradizionali, talvolta obsolete, ma non ancora del tutto superate rappresentanze del lavoro e delle professioni.
La conclusione politica di queste riflessioni è la seguente: ciò che serve è una nuova stagione del Pensiero e dell’Azione ed anche, mi pare di poter dire, di un rinnovato entusiasmo fondato sull’idea che viviamo, nonostante tutto e con tutte le difficoltà dell’oggi, in un’epoca “costituente”. Dobbiamo, dunque, coraggiosamente lasciarci alle spalle il novecento e immergerci nella Storia di oggi e di domani, cogliendo i “segni dei tempi” attraverso quell’approccio, anche soggettivo, che ci viene dal cuore della nostra migliore tradizione culturale rappresentata, tra le altre, dall’incipit della Enciclica Giovannea “Gaudium et Spes” e che recita: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi sono le nostre”. Quanta politica popolare, democratica e di reale progresso potrebbe ricominciare da qui…!