La proposta del direttore Dante Freddi
L’Europa federata, pur necessaria, resterà un’utopia? O ci salverà l’esempio di Cavour e Garibaldi?
“… quasi tutti i capi di governi nazionali non vogliono essere declassati. A volere l’Europa federata sono rimasti in pochi: uomini di pensiero, vecchi ma anche molti giovani che detestano frontiere e localizzazioni; Draghi con la sua Banca centrale; molti presidenti delle Camere europee, a cominciare dalla nostra Laura Boldrini; forse Angela Merkel, consapevole che anche la Germania in una società sempre più globale finirebbe col trasformarsi da nave d’alto mare in un barcone sballottato dai flutti.
Tutto è dunque appeso al filo di Arianna perché se è vero che l’Italia è un labirinto, molto più labirintica è l’Europa. Un capo del filo per uscire dal labirinto europeo è in mano alla Germania, l’altro capo dovrebbe essere il popolo europeo a tenerlo, il quale però non dimostra alcun interesse a questa vicenda. Ci vorrebbero all’opera partiti europeisti e questo avrebbe dovuto essere il compito anche del Partito democratico italiano.
Questo scenario è affascinante ma anche assai fantomatico. Storicamente somiglia al Risorgimento italiano: chi avrebbe mai pensato nel 1848, che il Piemonte di Cavour da un lato e Giuseppe Garibaldi dall’altro avrebbero fondato lo Stato unitario italiano? Nessuno l’avrebbe pensato in un Paese diviso in sette o otto staterelli, con un popolo fatto di plebi contadine e d’una borghesia appena nascente e interessata più a progetti economici che sociali e politici? Invece accadde, in tredici anni. Chissà che il miracolo non avvenga anche nell’Europa di domani. Tredici anni sono un lampo anche se sarebbe meglio farlo prima.” Eugenio Scalfari, La Repubblica, 20.09.2015)
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Eugenio Scalfari è troppo intelligente per azzardare previsioni sul destino dell’Europa, ma è troppo supponente per stare zitto; così mena il can per l’aia tirando fuori Garibaldi e Cavour e citando addirittura la Boldrini. Ma io non posso permettermi di fare il furbo e metto giù il mio compitino, cercando di essere chiaro come quando volevo prendere la sufficienza nel tema in classe. Se si utilizzano i concetti classici di confederazione di Stati e di Stato federale, l’Unione Europea è a metà del guado, perché ogni Stato, come in una confederazione, conserva la sovranità in materia di difesa e politica estera, compresa la facoltà di abbandonare l’Unione, mentre molti Stati hanno ceduto all’Unione la sovranità monetaria e tutti hanno ceduto larga parte della sovranità economica. C’è chi sogna l’evoluzione dell’Unione in Federazione: Stati Uniti d’Europa in analogia con gli Stati Uniti d’America. Si tratta di un sogno ispirato dal fascino che emanano gli USA, che, con una popolazione inferiore a quella dell’Europa e con una cultura che è un purpurì di culture europee, sono da oltre un secolo il più ricco e potente Stato del mondo. Ma questo sogno è destinato a infrangersi contro la realtà, perché le realtà è più complicata di quanto possano immaginare gli esseri umani, perché in Europa esiste una pluralità di forti sentimenti nazionali, mentre in USA il sentimento nazionale è uno solo, e perché la Russia e gli USA hanno interesse a boicottare una federazione con un solo esercito e una politica estera completamente autonoma. Ma, a parte queste considerazioni abbastanza scontate, credo che il destino dell’Europa sia il mantenimento e il rafforzamento dell’accordo commerciale tra tutti gli Stati dell’Unione e altri Stati in attesa di essere ammessi, come la Serbia e la Turchia, e il cammino verso la federazione di un gruppo ristretto di Stati, fra i quali l’Italia. Con ciò non ho detto nulla di originale, e nemmeno ci ho provato. Invece Scalfari ci ha provato e non c’è riuscito.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Lo spettacolo che offre l’Europa sulle questioni che contano è disarmante. Da quelle calde di tipo politico-territoriale classico (Crimea, Ucraina) derivate dal neoespansionismo russo, a quelle politico-strategiche (le passate “primavere arabe”, la Libia e il Medio Oriente), dalla crisi siriana all’avanzata e al consolidamento dell’ISIS, fino al drammatico esplodere delle migrazioni, l’Europa ha brillato per lentezza, inconsistenza e inefficacia delle iniziative. E non si dica più, a mo’ di consolazione, che comunque c’è una leadership, quella della Germania di Angela Merkel. Perché l’impressione momentanea che nel duello Wolfgang Schäuble – Alexīs Tsipras ad un certo punto potesse vincere l’uno e ad un altro punto l’altro si è rivelata fasulla: l’uno non è riuscito a spingere la Grecia fuori dall’Euro, l’altro si è piegato alle regole imposte dai creditori e ora deve fare i cambiamenti che aveva dichiarato di non voler fare, ma in ogni caso non ha vinto Schäuble. Inoltre perché la Merkel, che aveva fatto un’apertura inattesa sull’accoglienza dei migranti, con ciò dando l’impressione di voler prendere il timone di un’Europa sorpresa e impaurita dalla consistenza e dalla portata del fenomeno, non appena gli alleati della CSU bavarese hanno fatto la voce grossa ha fatto rapidamente macchina indietro. Infine, perché il cosiddetto “Dieselgate Wolkswagen”, fatto esplodere dall’ICCT (International Council for Clean Transportation), una nonprofit indipendente che con un report micidiale ha messo a nudo le pratiche scorrette della casa di Wolfsburg, ha di fatto tolto in un attimo alla Germania la patente di guida morale del continente.
L’Europa non ha una politica. Non solo, ma lo stesso terreno su cui l’Europa si è andata via via consolidando come prospettiva nuova nella storia del mondo moderno, ossia quello economico e monetario, si è rivelato fragile e friabile non appena quasi otto anni fa il fallimento di Lehman Brothers fece esplodere la crisi finanziaria poi diventata anche crisi economica. Se non fosse stato per il coraggio della BCE di Mario Draghi oggi anche l’Europa della finanza sarebbe stata fagocitata dal capitalismo finanziario di rapina.
C’è in tutto questo il peso del vizio d’origine, il peccato originale che ha condizionato e continua a condizionare la storia e il futuro dell’Unione europea. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare e sottovalutare la crescita di uno spazio europeo non solo economico ma anche di diritti e di opportunità creato dall’impegno di generazioni, e il merito di aver assicurato ai popoli europei decenni di pace e di prosperità, ma l’Europa è rimasta legata all’idea che fu di De Gaulle di un’“Europa delle patrie”. Anzi, le diverse situazioni di crisi stanno oggi accentuando questo vizio d’origine. Infatti, come dimostrano tutti i fenomeni in atto, sta tornando alla grande l’Europa degli interessi nazionali, che tendono a prevalere sulle ragioni dell’Unione intesa come comunità i popoli che hanno e sanno di avere interessi e destino comuni.
Ma il mondo non sopporta la miopia, cambia e continuamente propone sfide. Nuovi paesi si sono già fatti avanti, nuovi soggetti dominano la scena (si Cina, India, Brasile, ma anche parte del continente africano), e la globalizzazione è una sfida che non perdona chi si rinserra negli egoismi particolaristici. Gli schemi mentali ristretti durano lo spazio di un mattino e danno solo il senso di una sicurezza che si rivela falsa al primo stormir di fronde.
Scalfari, per uscire dall’attuale situazione di arretramento delle speranze, ripropone il tema che fece muovere i primi passi all’Europa, l’idea di una federazione di stati formulata tra il 1941 ed il 1944 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Ursula Hirschmann con il “Manifesto di Ventotene” pubblicato poi con prefazione di Eugenio Colorni. E formula l’auspicio che accada oggi quello che accadde all’epoca della formazione dello stato unitario italiano, quando in soli tredici anni si raggiunse un traguardo che all’inizio del percorso sembrava solo il sogno di visionari come Mazzini. Lui lo chiama miracolo. Io non credo a questo tipo di miracoli. Oggi non vedo all’orizzonte un Mazzini, né ovviamente un Garibaldi, e tanto meno un Cavour. Penso anche però che l’Europa è davvero ad un bivio: o resta inchiodata ai limiti attuali e si sfascia (magari riarticolandosi in formazioni più solide e differenziate), o si incammina coraggiosamente verso l’unità politica, che poi vuol dire anche governo europeo dei diversi aspetti che connotano lo stato moderno. Dubito che si formerà nel breve periodo una maggioranza politica che voglia e sia capace di superare il montante nazionalismo per andare in questa direzione. Vogliamo sperare nelle sorprese della storia? Possiamo, poco ci costa. Ma nel frattempo sarà bene tener viva l’idea dell’unità europea come unica sensata prospettiva per non essere schiacciati dai poderosi cambiamenti in atto e vivere con dignità.
La proposta di Leoni a Barbabella
Il socialismo dei ricchi. Un’ingiustizia voluta?
“Il socialismo dei ricchi è il trasferimento sistematico e istituzionale di risorse pubbliche ai soggetti economicamente più avvantaggiati della società. Il socialismo dei ricchi è una redistribuzione al contrario, dal basso verso l’alto, che assorbe risorse dalla collettività per concentrarle nelle mani di pochissimi privilegiati (banche, imprese multinazionali) e dei loro vassalli (i politici).
Il socialismo dei ricchi è un obiettivo politico. Comprenderne la natura e gli strumenti permette di sciogliere l’apparente contraddizione di una politica che, mentre predica la riduzione del ruolo dello Stato e il primato dell’iniziativa privata nell’economia, nella pratica aumenta il prelievo e la vigilanza fiscale con effetti macroscopicamente distruttivi della capacità produttiva e dell’occupazione.
L’equivoco è accuratamente coltivato. La narrazione politica e giornalistica amplifica l’immagine di un settore pubblico “protervo” e “insostenibile”. L’insofferenza dei cittadini aumenta: non solo per induzione dei media, ma anche perché in effetti il fardello della mano pubblica lievita sotto la spinta di una deliberata azione legislativa e “riformante”. È uno schema circolare, come la proverbiale ruota del criceto: tasse e burocrazia opprimono il Paese; i politici rispondono sottraendo risorse al settore pubblico e guadagnano consensi; contestualmente (e per quanto possibile occultamente) aumentano tasse e burocrazia; si ritorna al punto di partenza.” (www.ilpedante.org, maggio 2015)
L’opinione di Barbabella
Il Pedante è un blog interessante: ci si trovano esercizi di analisi linguistica e provocazioni su temi di attualità politica. L’articolo da cui è tratto il brano che sto commentando è tra i più brillanti. In rapida sintesi, vi si sostiene la tesi che il sistema di tassazione e di spesa dello Stato è semplicemente un meccanismo di drenaggio di ricchezza unidirezionale: dai ceti popolari ai ceti ricchi e potenti. Dunque una condizione di massima ingiustizia, peraltro fondata su un trucco: “Il popolino è addestrato a considerare lo Stato inefficiente, indebitato e sprecone. La iattura etica crea la percezione di una iattura economica: il pubblico è un fardello che nel migliore dei casi non ha valore e quindi va smaltito per dare ossigeno al mercato. Ma una volta gettato nell’immondizia, i padroni del mercato ci si fiondano. Loro, che ragionano sui numeri e non sulle suggestioni, sanno che la spesa pubblica è sempre un reddito privato e che la ricchezza dello Stato è, per un privato, il bottino più goloso”. Amen.
A questo punto ci si potrebbe aspettare che, oltre a svelare il trucco o presunto tale, si proponesse o la rivolta con i forconi, chiedendosi magari anche perché finora nessuno l’ha organizzata, o sic et simpliciter l’abolizione dello Stato perché nemico del popolo e succube del perverso mercato. Non più Stato e meno mercato, ma niente Stato e così niente mercato. Invece niente di tutto questo. Il che mi ha fatto venire in mente una posizione analoga su un altro argomento del notissimo sociologo Franco Ferrarotti. Ferrarotti nel 2012, a proposito della generazione cosiddetta dei “nativi digitali”, si esprimeva così: “Un’intera generazione – come da almeno trent’anni vado documentando – appare nello stesso tempo informatissima di tutto, comunica tutto a tutti in tempo reale, ma non capisce quasi nulla e non ha niente di significativo da comunicare. È una generazione al macero, appesa agli schermi opachi di TV, Internet, Facebook, Youtube, eccetera, destinata all’obesità catatonica e alla lordosi sedentaria. La stessa molteplicità e eterogenea abbondanza delle informazioni la deforma, la fagocita, le impedisce di stabilire una propria tavola di priorità. Internet, priva della critica delle fonti, è la grande pattumiera planetaria e paratattica, in cui giovani e giovanissimi, adolescenti, ma anche giovani adulti, vanno quotidianamente affondando. Questo è un grido di allarme che non si fa illusioni. Non sarà ascoltato. Quest’epoca avrà il malessere del benessere che si merita.” (Franco Ferrarotti, Un popolo di frenetici informatissimi idioti, Edizioni Solfanelli, 2012). Amen.
Come nel caso precedente, anche qui ci si poteva aspettare una proposta del tipo aboliamo Internet e i social network, facciamo una rivolta mondiale per salvare i giovani, bruciamo tutto e ricominciamo da capo. Ma no, anche qui niente di tutto questo. E così di fatto, con questa coda di impotenza, si giustifica l’esistente: da una parte ciò che è continuerà ad essere e dall’altra gli analisti acuti e disincantati potranno continuare a fare il loro mestiere di brillanti critici. Non che nelle loro analisi non ci siano aspetti di verità e non che dunque i loro interventi siano del tutto inutili, giacché comunque provocano e invitano ad esercitare il pensiero critico. Il punto però è che se ci si ferma lì non si fa un passo avanti.
Ad esempio, nel caso de “Il Pedante”, non ci si può fermare a dire che “‘Spreco’ e ‘corruzione’ sono le etichette più in voga per giustificare – su basi economiche rigorosamente non dimostrate ma di sicura presa emotiva – il paradosso di una spesa e di un indebitamento crescenti nonostante i tagli”. Si dovrà dire che spreco e corruzione sono reali, che vi sono responsabilità passate e presenti, e che con determinate riforme e azioni pertinenti, se non si potranno eliminare del tutto, almeno si potranno limitare di molto con vantaggio per tutti. Insomma, le ingiustizie e i trucchi non sono necessari e inevitabili, per cui, se ci sono e persistono, ci sono anche delle precise responsabilità. Non esistono forse le classi dirigenti? Non c’è forse un problema di come si formano? Non c’è forse anche un problema di idee, di valori e di comportamenti diffusi?
Nel caso di Ferrarotti la questione è ancora più chiara, ma non è il caso di dilungarci qui oltre. Mi limito a rilevare che in Italia la cultura laica della critica razionale e delle riforme necessarie perché giuste e possibili non ha mai avuto grande spazio. Meglio gli strilli che lasciano il tempo che trovano, meglio la ‘genialata’ del momento che essendo parlata non dà fastidio a nessuno, e meglio dire che pensare e fare. Amen o amen?