di Gianni Marchesini – Orvieto Felice
L’epoca delle città a vocazione turistica che si limitano all’”accoglienza” è finita.
Nelle modalità dell’accogliere ormai ogni città si assomiglia secondo sistemi statici e ripetitivi. Così non si fa altro che discutere e lamentarsi sui limiti dei flussi turistici, sulla breve permanenza del visitatore, sulle mobilità, sulle piazze con permanenza di parcheggio o invece pedonalizzate e, ancor meglio, pedanizzate.
Inoltre ogni esercizio “accoglie” a modo suo favorendo il proliferare di un’estetica un po’ bizzarra e incoerente sotto la quale la città con il suo sensato rigore architettonico ha finito per soccombere.
Un centro storico, una città in tal modo arredata e condotta, finisce per determinare tipologie turistiche dal budget modesto che la sospingono in un ambito economico di esiguo valore ancor di più nei momenti di basso orientamento alla spesa.
Qual’è il passaggio obbligato allora? Quello di trasformare questa città dell’oggi che persegue la condizione attendistica dell’accoglienza in un’altra città, dinamica, che si attiva invece per “attrarre” il turista, lavora per distillare un unicum, un valore aggiunto e speciale capace di suscitare desideri. È una rivoluzione necessaria e coinvolgente di tutta la città pubblica e privata.
Cosa fare allora?
Prima di tutto ci vuole un Marchio, un BRAND come va di moda chiamarlo oggi.
Molte città lo hanno, fra le quali Venezia.
Il Marchio serve per inviare all’esterno un’idea unica della città e per definire un ambito e delle regole di azione nei casi in cui questo venga concesso in uso ad attività pubbliche o private.
La seconda operazione, indispensabile, è quella di sovvertire il concetto del tutto errato per cui le strutture ( i cosiddetti contenitori) a disposizione della città assolvano la funzione di “far partire” e non siano invece l’”arrivo” di manifestazioni buone per il turismo.
I congressi insomma non si ottengono perché abbiamo un Palazzo dei Congressi. Il Palazzo dei congressi è soltanto una platea di poltroncine tecnicamente idoneo nel quale si svolge una sola parte di essi.
Il Pozzo di San Patrizio ha un flusso di ingressi ridicolo perché è un monumento in statica accoglienza appena adeguato al turismo degli anni ’70. Basterebbe un’incentivazione, almeno come quella impiegata per un altro pozzo di Orvieto, un po’ più ridotto, che il San Patrizio legittimo aumenterebbe l’incasso oltre il 50% rispetto a quello attuale.
La terza operazione è quella di considerare le Strutture pubbliche (Pozzo di San Patrizio, Teatro/Caffè del Teatro, Palazzo dei Congressi, Palazzo dei Sette/Torre del Moro, Albornoz/Parco etrusco, Chiesa di Sant’Andrea, Palazzo del Gusto/Belvedere, Carmine) un tutt’uno inscindibile e integrato al servizio di un’attività il cui centro dinamico e creativo, la “partenza”, sia la città storica.
Cosa serve allora?
Serve un gestore del Marchio, un’Agenzia (anche la Tema inizialmente, perché no) che ci lavori a tempo pieno, che butti dentro la città idee intelligenti e che accolga anche contributi esterni adeguandoli alla strategia decisa e perseguita.
Serve unificare tutte le strutture che potranno funzionare soltanto con lo stesso, virtuoso sistema dei vasi comunicanti.
Si diventa una città congressuale se si è capaci di prendere i congressisti una volta usciti dal Palazzo, portarli al Pozzo per una degustazione di Muffa Nobile, condurli a godersi la sera uno spettacolo al Teatro Mancinelli dopo che avranno preso l’aperitivo lassù al Belvedere.
Immaginare di lasciare questa città in mano a delle biglietterie e a strutture divise come camere stagne non comunicanti, senza un circuito di idee, una mobilitazione coordinata di capacità umane, un riferimento unificante e strategico, è una mancanza amministrativa grave ancor più se, invece di smetterla, s’intende ancora perseverare nell’errore con l’idea davvero malsana di concedere il Palazzo dei Congressi al primo arrivato per la miseria di venti congressi all’anno.