A dire il vero un anno non è ancora del tutto passato: siamo solo a dieci mesi, grosso modo, dall’alluvione del 12 novembre 2012. Ma l’autunno sta arrivando e “le mosse” non sono buone.
Il sottotitolo invece è preciso: c’è stata una catastrofe, cioè una rottura, un cambiamento repentino e disastroso di quelle che si ritenevano le “normali” condizioni ambientali ed urbane di una parte consistente della comunità orvietana. A fronte di questo e nonostante il coinvolgimento e l’impegno personale di qualche politico che è riuscito ad ottenere risorse economiche straordinarie, le istituzioni che hanno competenza sul governo del territorio hanno di fatto continuato ad operare in base all’inerzia derivante dalle loro norme costituenti e dalla loro organizzazione funzionale. E’ da notare subito che quell’inerzia è stata tra le cause dell’incremento dei danni alle cose e dei disagi alla popolazione dovuti all’alluvione e che quell’inerzia, perdurando nel periodo successivo all’evento, ha prodotto esiti paradossali come ad esempio la questione dei beni ammessi al risarcimento e quanto verremo ad evidenziare qui sotto.
Il periodo in cui è stata in vigore la dichiarazione di “Stato di Emergenza” è scaduto. Durante quel periodo abbiamo visto operare soltanto le società che a compensazione hanno cominciato la ripulitura dell’alveo. La cosa è ancora ben lontana dall’essere completata e depositi di inerti, cataste di tronchi, cumuli di rifiuti stanno ancora nell’alveo del fiume che nelle zone limacciose si è riempito nuovamente di vegetazione infestante. Lungo i canali degli affluenti ci sono poi gli alberi pericolanti che cadranno alla prossima piena con le conseguenze pericolose e dannose che abbiamo appena sperimentato, ma che staranno lì fino a che qualcuno deciderà quale ente debba dichiarare il rischio per la pubblica incolumità e dunque possa mettere qualche altro ente in condizione di provvedere. Cosa che quest’ultimo poi farà in completa autonomia e in modo formalmente ineccepibile lasciando ai cittadini l’impressione sempre più fondata che si agisca in ritardo, parzialmente e con sprechi di denaro.
Comunque la pulizia dell’alveo e la sua riprofilatura, che in gran parte determinano il tipo di flusso delle acque e che sono preliminari a qualsiasi altro intervento di governo delle stesse e di mitigazione del rischio per gli abitati, non hanno ancora trovato una loro organica programmazione. E un prelievo programmato di materiali che nei prossimi anni sia di ausilio alla manutenzione dell’alveo e che possa anche essere finalizzato ad alimentare produzioni di energia viene considerato alla stessa stregua di un tabù.
Il 9 luglio in una Conferenza presso la Sala consiliare del Comune di Orvieto sono stati presentati i lavori che avrebbero dovuto essere messi in cantiere entro l’estate. Da allora la nostra associazione ha cominciato a richiedere la pubblicazione dei progetti esecutivi, ma i progetti di opere pubbliche, evidentemente, devono restare interdetti alla pubblica consultazione. Sui motivi e sugli obbiettivi cominciano a definirsi delle evidenze, così abbiamo cominciato a segnalare alcune criticità, purtroppo costretti a farlo sotto forma di diffida (7 nei primi dieci giorni di agosto).
Ma tutte le questioni concrete che abbiamo segnalato derivano dalle mancanze metodologiche del post alluvione: mancanza di ricalibrazione adeguata delle prospettive di governo del territorio, mancanza di approccio pluridisciplinare ai problemi, mancanza di coordinamento interistituzionale, mancanza di competenza specialistica, mancanza di coinvolgimento delle popolazioni. In queste condizioni di mancanza prosperano gli interessi particolari, ma questa è un’evidenza così palese e meschina che non merita, ora, tenere in conto.
Le incongruenze derivanti dal modello di intervento (è stato definito così durante un incontro pubblico) adottato nel post alluvione emergono chiaramente quando si prenda una mappa del territorio. Per semplicità di esercizio possiamo limitarci al tratto urbano del fiume, su cui si evidenzi la superficie inondata e il danno subito nelle singole zone in relazione alle peculiarità altimetriche, urbanistiche, demografiche, sociali ed economiche. Su questa mappa andiamo poi a tracciare gli interventi in cantiere da parte di Bonifica e di Provincia (gli orvietani potrebbero, più semplicemente affacciarsi dalla Fortezza dell’Albornoz e guardare giù verso la valle del Paglia). E poniamoci la domanda: nell’insieme delle criticità che riguardano l’area inondata, qual è stato il criterio che ha definito la priorità degli interventi messi in cantiere? Dopo di che, a grappolo seguono le questioni relative all’efficacia, all’appropriatezza, al rapporto costo-beneficio, all’impatto ambientale e sociale etc etc. Una corretta valutazione delle opere in cantiere andrebbe fatta così. Ma dalla lettura della mappa (o dall’affacciarsi sulla valle) emergerebbe con tutta evidenza un altro elemento: la sporadicità degli interventi. E la bizzarria della loro ubicazione laddove gli effetti dannosi dell’alluvione sono stati minori. E allora torna la questione dei criteri e delle priorità stavolta a spiegare i “non interventi”. Nessuna ingenuità, la logica delle cose è sempre concreta e storicizzata. Ma proprio per questo è dialettica ed implica responsabilità: della comunità, dei suoi rappresentanti politici e dei tecnici.
Frutto delle mancanze metodologiche che dicevamo è pure la modalità con cui si dà il via ai lavori. All’unico lavoro fin qui iniziato. Sotto Ferragosto alla confluenza del Chiani con il Paglia arriva una ruspa e sparisce una parte del cumulo di rifiuti anche inquinanti che stava in argine. Il ruspista, cottimista di un sub-appaltante, ha una consegna precisa e non sa dare spiegazioni, né di ciò che è successo né di ciò che fa. Il tutto avviene a qualche decina di metri dagli orti e dalle case. E’ una zona di passaggio ma non c’è nessuna delimitazione né cartello di cantiere: qualche giorno prima era stato lasciato un container. Cominciano i capannelli, si fanno illazioni, ci si arrabbia. Era un vecchio progetto di gabbionate della Provincia si riesce poi a sapere. Senza rendersi conto della gravità, dell’insensatezza e della involontaria comicità di ciò che dice, un dirigente si lascia scappare, grosso modo, che è una fortuna che quei lavori non fossero stati già fatti, altrimenti la piena li avrebbe portati via. Ma ora si rifanno, sono inutili e costosi, ma si rifanno. Lì andrà realizzato anche un argine da parte di Bonifica, ma i lavori della Provincia sono partiti senza alcun raccordo con quest’ultima. E Bonifica lamenta il danneggiamento da parte del ruspista di una stazione di rilevamento idrometrico di cui evidentemente si ignorava l’esistenza. E ci sono poi tanti altri particolari che si possono immaginare o ricostruire parlando con gli abitanti di quella zona.
Fin qui l’esperienza degli interventi post alluvione sul Paglia e sui suoi affluenti. Il modello sarà lo stesso anche per la individuazione, programmazione ed esecuzione dei lavori che saranno finanziati sul 2014 e sugli anni successivi?
Da qualche tempo si sente parlare della necessità di coordinamento. E’ forse ancora un po’ poco e un po’ tardi quindi cerchiamo di dare contenuti e tempi a questa dichiarazione che nei principi dovrebbe riuscire a superare le inerzie delle istituzioni e a proporre un approccio più adeguato verso il governo del territorio. Ecco alcune misure, in parte già nell’aria, che ci sentiamo di suggerire:
1) in relazione ai cantieri operativi e di prossima apertura, curare il monitoraggio/valutazione dei lavori attraverso una figura di fiducia delle comunità locali e terza rispetto a committenza e appaltatore;
2) organizzare l’analisi comparativa degli studi geologici e idrologici esistenti sul bacino idrografico del Paglia per arrivare a redigere autorevoli Linee guida di programmazione degli interventi;
3) organizzare l’incontro con i comuni di Allerona e Castelviscardo per collazionare quanto già esistente e renderlo coerente per un programma organico di intervento;
4) costituire un organismo interistituzionale di orientamento e valutazione delle progettazioni di governo del fiume e di mitigazione del rischio idraulico;
5) organizzare la presentazione dei programmi nazionali ed europei che potrebbero cofinanziare progetti di tutela e valorizzazione del fiume e del territorio;
6) organizzare un incontro interregionale di programmazione progettuale congiunta;
7) individuare dei facilitatori che consentano a ciascun ente coinvolto di individuare e di adottare, nei diversi compartimenti, le riforme interne necessarie;
8) avviare la progettazione partecipata del Parco civico del Paglia.
L’effettivo coinvolgimento della comunità locale per una partecipazione proattiva dei cittadini è condizione ed obbiettivo delle misure appena elencate. Quindi bisognerebbe predisporre un adeguato programma di eventi. Ma sarebbe pure interessante realizzare una mappa tematica su cui si evidenzino gli interventi che verranno ad essere definiti. Tutti, da quelli di infrastrutturazione primaria (per cercare di contrastare il riflusso delle acque dalle condutture fogniarie) a quelli di mitigazione del rischio, a quelli di manutenzione programmata, a quelli di sistemazione per la pubblica fruizione degli spazi in alveo. Una mappa sempre disponibile ed aggiornata, integrata di un calendario, che consenta a chiunque di orientarsi e di farsi un’idea di come i lavori realizzano un progetto urbanistico ambientale organico e condiviso.
Chi dovrebbe avere la responsabilità del coordinamento? Tra i vari enti pensiamo che, in forma partecipata ed aperta, debba essere il Comune. È comunque l’istituzione più vicina ai cittadini che condividono con il fiume Paglia una medesima comunità di destino.