ORVIETO – Trent’anni. L’equivalente dell’ergastolo scontato ad un terzo per via del rito abbreviato. Luciano Brancaccio, il 41 enne di Bevagna che a luglio dello scorso anno aveva dato fuoco alla moglie Rosa Sequino di 44 (la donna morì dopo quattro giorni di agonia in mezzo a terribili sofferenze) è stato condannato ieri mattina a trent’anni di carcere per omicidio volontario aggravato.
Il gip del tribunale di Orvieto (i fatti si erano svolti ad Acqualoreto) Gianluca Forlani ha accolto nella loro interezza le richieste del pubblico ministero Flaminio Monteleone. A nulla sono valse le giustificazioni dell’uomo che ha detto più volte in passato che era sua intenzione solo spaventare la moglie. E a nulla sono valse le lacrime che Brancaccio ha più volte versato in udienza, da ultimo ieri mattina. Allo stato degli atti, è stata infatti chiarissima per il giudice la fredda premeditazione con cui il muratore di Foligno, trapiantato negli ultimi tempi a Bevagna, dove viveva con un’altra donna, ha portato a compimento il suo piano: la benzina acquistata preventivamente, la balla dell’appuntamento dall’avvocato usata come escamotage per arrivare fino a Todi con la moglie e condurla in un luogo isolato. Era il 27 luglio dello scorso anno. Ma in udienza sono emersi anche altri particolari. Agghiaccianti. Pare che il giorno prima Brancaccio avesse detto all’amante (e pare anche al figlio) qualcosa come “Tanto domani l’ammazzo”.
L’autopsia ha poi rivelato che il marito avrebbe legato le mani della povera moglie e che l’avrebbe tenuta per i polsi perché, cosparsa di benzina, non si divincolasse più di tanto mentre ardeva viva. Circostanza confermata anche dal fatto che lo stesso Brancaccio si sarebbe ustionato le mani nel tentativo, appunto, di tenerla ferma. Infine, neanche la perizia psichiatrica è venuta in aiuto dell’uomo che, secondo la professoressa Carla Nicchieri di Firenze, nominata dal giudice per le indagini preliminari Gianluca Forlani, è sano di mente e lo è sempre stato anche nei momenti del tentato omicidio, diventato poi omicidio con la morte della donna le cui condizioni erano apparse da subito disperate. Rosa Sequino aveva riportato ustioni sul 90% del corpo. Con un quadro accusatorio di questo genere c’è stato poco da fare. E ieri mattina, con la condanna a trent’anni, è arrivata la fine del primo capitolo giudiziario della vicenda. Brancaccio dovrà anche risarcire la parte civile. Ovvero i figli, affidati dallo scorso anno agli zii e le sorelle della povera Rosa, tutti si sono costituiti tramite gli avvocati Emanuele Florindi e Simona Boldrini. Hanno chiesto un milione di euro, ma la cifra andrà quantificata per via civile.
A distanza di un anno, Brancaccio si dice pentito di quanto ha fatto e appare visibilmente provato (ha perso diversi chili). Alle basi della tragedia consumata in una stradina isolata di Acqualoreto (zona che Brancaccio conosceva bene per avervi lavorato mesi addietro) dissidi insanabili tra i due coniugi che non dividevano più neanche lo stesso tetto. Pare che la moglie però fosse “colpevole” di non volergli concedere il divorzio. Secondo le testimonianza le liti erano frequenti e Brancaccio aveva già alzato le mani, anche su una sorella di Rosa.