Riceviamo e pubblichiamo.
Il seminario formativo è stato organizzata dalle donne di Rifondazione Comunista del Trasimeno e dell’Alto Orvietano, che hanno voluto interrogarsi sulle motivazioni del femminicidio, diventata ormai emergenza sociale; si è svolto a Castiglione del Lago nel fine settimana, e ha visto la presenza di un gruppo di uomini e donne, amministratori, operatori sociali, che hanno partecipato ad un acceso dibattito con l’antropologa Michela Zucca, che da anni si occupa di storia delle donne e cultura di genere. L’artista Perseo ha realizzato un’opera d’arte per l’iniziativa.
I dati e i contenuti emersi sono allarmanti: una donna su tre subisce violenza, un uomo su tre la compie. La famiglia è tornata ad essere un ambito privato, in cui i problemi devono essere risolti dall’interno e in cui non bisogna impicciarsi. Il femminicidio, fenomeno relativamente nuovo, degli ultimi dieci anni, è solo la punta di un iceberg che parla di una serie infinita di violenze che la donna subisce senza fiatare e che culminano nella sua eliminazione. La famiglia è la situazione più a rischio per violenza e femminicidio. Nel 2002 gli omicidi maturati all’interno dei “rapporti di prossimità” prendono il sopravvento su quelli malavitosi. E il fenomeno è in aumento.
La violenza subita deve essere considerata come un delitto classista anche perché le donne si trovano, a tutt’oggi, in condizioni di inferiorità economica rispetto agli uomini. Inferiorità che continua ad accrescere rispetto a vent’anni fa, perché cresce la precarizzazione del lavoro, e la componente femminile è la più precaria di tutte. Non solo: la mentalità comune, e soprattutto quella dei datori di lavoro, oggi più che mai, si basa sulla cultura del familismo: rifiuta di considerare la donna un soggetto autonomo che da uno stipendio ha il diritto di ricavare il necessario per sostenersi completamente, e considera invece il suo compenso lavorativo come un “surplus” che va ad integrare la fonte di reddito principale (fornita da un maschio). Il fatto che le donne non possano andarsene di casa per una serie di fattori oggettivi: ciò che guadagnano non è sufficiente a mantenerle; le case popolari non vengono assegnate a donne sole; la famiglia di provenienza cerca di indurle ad accettare le “discussioni” e ad essere “elastiche”, le espone maggiormente al rischio di essere uccise in caso di crisi. Quindi la possibilità di ottenere giustizia, sia legale che sociale, si rivela ancora una volta un privilegio di classe.
Altra cosa che fa paura è che una gran parte dei femminicidi sono commessi da uomini che in qualche modo dovrebbero difendere la legge: esponenti delle forze dell’ordine, militari, guardie giurate che sono in possesso legale di un’arma da fuoco (43% degli uxoricidi avviene per mezzo di un’arma da fuoco), e che la usano per ammazzare la partner quando questa decide di andarsene.
In famiglia le madri insegnano alle figlie a “capire” e gran parte delle denunce per violenza vengono ritirate per mantenere “l’integrità della famiglia”. Anche perché fuori dalla famiglia (quella di origine e quella costruita, entrambe ostacolanti il progetto di uscita della donna in difficoltà) si è completamente sole.
Fino a quando si va a scuola, sembra che il problema non esista. Le insegnanti (fra l’altro, quasi tutte femmine….) non ne parlano; a casa l’argomento è tabù. Quando si finisce sul mercato del lavoro, si spalanca un mondo. E si scopre che a parità di compiti si prende – se va bene – il 30% in meno; che le donne non le assumono; che ti chiedono se sei fidanzata e se hai intenzione di partorire; e che coi nuovi contratti, non hanno neanche bisogno di licenziarti se rimani incinta.
La “nuova donna” si ritrova sempre più sola: la scomparsa della famiglia estesa ha aggravato la sua fatica, privandola di qualunque aiuto. La casa deve essere sempre pulita, così come abiti e biancheria di tutta la famiglia; lei deve essere sempre a posto e non può permettersi di invecchiare; cucina due volte al giorno…. E lavora in casa (dopo l’ufficio) sette volte un uomo. Ciò si traduce in un enorme numero di infortuni, che non sono riconosciuti come infortuni sul lavoro.
Non è possibile tentare una risposta che sia solo repressiva, anche perché i posti in galera sono limitati; quelli per le donne nelle strutture protette ancora di più. Il femminicidio nasconde un fenomeno che coinvolge decine di migliaia di persone: una vera e propria colpa di massa.
Si può essere incisivi attraverso la disapprovazione sociale conseguente ad un cambiamento culturale profondo e alla formazione in qualunque ambito: cosa che appunto manca per precisa volontà politica, sociale, culturale. La soluzione può essere soltanto culturale: imporre la formazione alle pari opportunità nelle scuole di ogni ordine e grado, obbligatoria e con voto. Inoltre si deve ritornare in piazza a combattere per i diritti delle donne: da quando il movimento femminista ha smesso di esistere, di certi temi non si è più parlato, in quanto sembravano risolti. Invece, la conquiste civili che vanno contro una cultura acquisita devono essere continuamente riconfermate per un periodo di tempo lungo tanto quanto ci hanno impiegato ad affermarsi. Se non sono sostenute dallo Stato, svaniscono in poco tempo specie nelle fasce deboli.